martedì 29 novembre 2011

25.11. 2011 - Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne

Venerdì 25 novembre 2011 viene celebrata la "Giornata internazionale contro la violenza sulle donne". l’Assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Tolentino in collaborazione con la Provincia di Macerata e la Consulta delle Donne di Tolentino, promuove una serie di iniziative che si terranno alla “Spazio Donna” al Centro Sociale Santa Teresa, tutte con ingresso libero ed aperto a tutti.
Alle ore 18 c'è l’inaugurazione della mostra fotografica “Women through my lens” della fotografa italo-giordana Fatima Abbadi.

“Può dire di più una donna in un sospiro che un uomo in un sermone” recita un vecchio adagio mediorientale e questo è il tratto che contraddistingue l‘arte di Fatima Abbadi che, attraverso i volti femminili cattura le essenze delle donne e le custodisce nel bianco e nero della sua fotografia. Il progetto “Women through my lens” consiste nella continua ricerca della femminilità colta nel quotidiano, vista da occhi appartenenti a due differenti culture, quella europea e quella mediorientale. Le opere rappresentano situazioni femminili osservate per strada, in ambienti quotidiani o sono dei semplici ritratti. Con i suoi scatti Fatima desidera raccontare le emozioni e le storie che riesce a intravedere o immaginare attraverso gli sguardi della gente, cercando di dare un’anima alle cose che ci circondano. Fatima Abbadi cerca di non interferire o inquinare l’ambiente fotografato, evitando di disturbare il soggetto e ciò le consente di cogliere immagini estremamente sincere e comunicative. Nonostante le diversità delle foto, all’interno di ciascuna di esse si riconosce un’universalità che si fonde in ogni fotografia: l’esperienza femminile.

Fatima Abbadi è una femminista araba e fotografa free lance italo-giordana nata e cresciuta tra Abu Dhabi e la Giordania, che dieci fa si trasferisce a Padova per gli studi universitari. L’hobby della fotografia, che deve ad una macchina fotografica regalatale dal padre a 13 anni, si trasforma presto in una vera e propria passione che la porta a sostituire un semplice “scatto” con uno studio approfondito delle motivazioni che stanno dietro ogni singola foto. Nel 2007 segue un corso ed entra poi a far parte del gruppo Mignon, un’associazione culturale che promuove progetti fotografici diretti ad investigare il quotidiano, l’uomo e il suo ambiente. Fatima Abbadi scatta le sue fotografie con il metodo tradizionale analogico ed utilizza pellicole in bianco e nero che vengono poi sviluppate in camera oscura. L’esposizione di Amman in Giordania del gennaio di quest’anno rappresenta una prima raccolta di 4 anni di lavoro e di ricerca continua, che la porta a viaggiare in vari posti in Europa e Medio Oriente. Fatima Abbadi sostiene attivamente la causa palestinese e devolve molti dei proventi del suo lavoro ai progetti curati dall’Istituto di Cultura Italo-Palestinese di Padova che ambiscono a divulgare la millenaria cultura del popolo di Palestina.




Presidente Napolitano, perchè mi proibiscono di visitare Gerusalemme?


Caro Presidente,
mi chiamo Fatima Abbadi, ho 33 anni, e sono una cittadina italiana. Scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cittadini che avranno la possibilità di ascoltare queste mie parole, questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e civile.
Sono nata in una terra straniera, negli Emirati Arabi Uniti, da padre arabo (Giordano) e madre Italiana, dove ho trascorso quasi tutta la mia infanzia, frequentando una scuola indiana. A quindici anni mi sono trasferita in Giordania dove ho terminato gli studi secondari in una scuola araba/americana. In queste terre straniere multi-culturali ho imparato il valore e l’importanza che la conoscenza di diverse culture può avere nella crescita e nell’educazione dell’individuo, creando in me un bagaglio culturale di inestimabile valore.

Una volta arrivata in Italia per gli studi universitari, è iniziata una ricerca culturale per capire al meglio le mie radici arabe ed europee, per scoprire il nesso tra occidente e medioriente. Ho scelto la fotografia come linguaggio di espressione e l’essere femminile come strumento di approccio per comunicare con gli altri. Non giudico la mia fotografia: lascio che ognuno sia in grado di cogliere da essa il mio messaggio.Ho sempre cercato di evidenziare la “bellezza” dell’essere umano, la sua essenza, la pace, l’amore, la tristezza, il dolore, la nascita e la gioia. Da 5 anni questa ricerca è diventata “progetto”, che mi ha portato a viaggiare in molti Paesi. La prima parte di questo progetto di ricerca umana/filosofica si è conclusa proprio all’inizio di quest’anno, con una prima raccolta di opere denominata “Women Through my Lens”, che è stata presentata ed esposta ad Amman (Giordania), città natale di mio padre.

Questo mio progetto mi ha portato a scegliere come meta di viaggio per le ferie estive di quest’anno “Gerusalemme”. Avevo scelto questa città perché, in primis, è un pilastro fondamentale per la mia fede (musulmana), ed è la città delle 3 più grandi Religioni monoteiste.

Ero alla ricerca dello “spirito” che da sempre lega l’uomo con il Divino.

Ero alla ricerca delle miei radici.

Gerusalemme è la culla delle civiltà, a livello storico, linguistico, culturale e perché no, anche culinario.

Volevo capire meglio e da vicino la religione ebraica.

Volevo scoprire le usanze e i costumi che le donne tramandano da generazioni in generazioni. Non ho preferenze di razza, colore o etnia. Il mio cammino mi porta a non avere barriere, pregiudizi o ad ettichettare qualcuno. La mia ricerca era mirata a tutte le donne in Terra Santa perché io credo nell’essere femminile, nel fatto che siamo tutte ambasciatrici di cultura ed educazione.

Volevo cercare di comprendere il perché di questi eterni conflitti che dissacrano questa città sin da tempi remoti. Credo anche nella umanità delle persone e sono convinta che pure nel dolore, nella sofferenza e nella cattiveria di una guerra, si possa trovare tanto amore da donare

Non mi spaventava questo viaggio.

Sono partita da Venezia il 26 agosto 2011, volo Alitalia 1464 delle 08.00, scalo Roma Fiumicino, per poi prendere il volo Alitalia 812 delle 11.35 che mi avrebbe portato a Tel Aviv alle 15.55, ora locale. Durante il mio viaggio, tutta una serie di riflessioni su questa nuova terra, per me straniera. Ero entusiasta. Continuavo a ripetermi una frase letta in un libro di Fatema Mernissi: “Le parole della nonna Jasmina: viaggiare non è un’occasione di spasso, ma di apprendimento. Passare frontiere, superare la paura dello straniero, fare lo sforzo di comprendoerlo, è decisamente un modo meraviglioso di arricchirci. Ci permette di capire chi siamo, e come la nostra vita ci tratta.“[1], che mi incoraggiava e mi caricava tantissimo. Mi ero fatta una scaletta di luoghi da visitare, di cibi da provare, speravo in storie da ascoltare e di poter narrare qualcosa del mio Paese, l’Italia.

Era un sogno che si stava realizzando e che da tanto portavo nel mio cuore.

Atterrata a Tel Aviv attorno le 16:30, al Controllo Passaporti mi vengono fatte tutta una serie di domande, tra le quali il nome di mio padre e di mio nonno paterno, e mi viene chiesto di accomodarmi in una sala d’attesa adiacente. In questa sala cerano tanti altri ragazzi chiaramente di origini arabe.

Uno ad uno venivano chiamati, intervistati e lasciati andare. Rimango da sola in questa stanza ed attorno le 18:00 vengo chiamata, per ultima, e fatta accomodare in una nuova stanza con alcune persone. Mi viene ordinato di scrivere i miei contatti (telefonici, posta elettronica, indirizzo di residenza) in Italia ed inizia una ulteriore serie di domande sul mio soggiorno, in particolare il motivo del mio viaggio in Gerusalemme. Spiego che sono lì per motivi religiosi, per vedere la Terra Santa, da turista e per scattare qualche fotografia.

Mi è stato chiesto di che religione ero e il “grado di credo”. Non comprendendo appieno la domanda ho loro detto di essere di religione musulmana, come si dice “moderata”, e che i miei genitori sono di due religioni diverse.

Mi è stato chiesto dove avrei soggiornato e ho loro risposto che non avevo ancora prenotato il luogo, in quanto avevo con me una lista di ostelli ed un convento di suore e che avrei deciso solo dopo aver visionato il posto. Nel peggiore delle ipotesi avevo una amica conosciuta tramite un social network, che scrive per una rivista italiana on-line, che mi avrebbe ospitato in caso di problemi.

Tutto questo in stile “interrogatorio” con toni bruschi, urla, minacce di essere picchiata od imprigionata se avessi mentito.

L’intervista (chiamiamola comunque così) è durata circa due ore. In questo lasso di tempo sono stata accusata di essere bugiarda e di non voler collaborare (collaborare a cosa? Sono accusata?).

Ad un certo punto mi è stato intimato di accedere a tutti gli account di posta elettronica e di Social Network ai quali sono iscritta, senza possibilità di rifiuto (Facebook – Twitter – Gmail).

Da intervista siamo passati a una minuziosa ispezione di tutto quanto fosse il mio mondo, pubblico e privato: su Facebook hanno sfogliato tutti i messaggi scambiati con gli amici e familiari, le fotografie pubbliche e quelle condivise con pochi intimi, con relative prese in giro, risa, burla ed insinuazioni. Una violazione della mia intimità. Violenza psicologica.

Dopodiché è iniziato un vero e proprio incubo: nello scorrere la lista di amici hanno notato ragazzi palestinesi, ignorando ovviamente i pochi ma pur presenti israeliani e di religione ebraica. Inoltre hanno visto tra la lista di amici anche il nome di Vittorio Arrigoni, che mi aveva inserito nella sua lista qualche settimana prima della sua prematura ed inaspettata morte. Ho chiesto la sua amicizia in quanto il suo messaggio di pace, “Restiamo Umani”, è per me la base dei rapporti umanitari. Nemmeno da morto ha ricevuto il giusto rispetto, trattato da assassino. Ed io sono diventata terrorista. Hanno insinuato che io fossi affiliata a movimenti attivisti o contro Israele. Non hanno dato peso a tutti i miei messaggi di pace su quelle stesse pagine che mi hanno ingustamente ed inspiegabilmente “incriminata”. D’altronde io non collaboravo, dicevano. Continuavo a spiegare il mio amore per la cultura, lo scopo del mio viaggio. Ero lì per esaudire un mio sogno, ero lì per uno scambio culturale: ho ricevuto odio e rabbia. Spesso cedevo ai loro metodi intimidatori e brutali ed alle loro minacce, ho pianto molto per paura, continua umiliazione e a volte per disperazione. E più cedevo più venivo assalita; sono stata forzata a leggere ad alta voce mentre piangevo poesie d’amore a me rivolte, brani in lingua araba, derisa e minacciata.

Ho cercato di comprendere i motivi di tanto accanimento, ho chiesto loro di leggere le mie interviste online, di controllare i miei lavori fotografici, per dimostrare loro che non sono una “minaccia”: minaccia per cosa poi, non lo so ancora.

Non avevo più niente se non vestiti ed il denaro che mi hanno lasciato, sequestrandomi tutto il resto. Avevo paura. Paura di essere picchiata. Paura di non tornare a casa.

Al termine dell’interrogatorio sono stata portata senza motivo nell’edificio detentivo aeroportuale e chiusa in una cella, priva di ogni cognizione di igiene, in condizioni inumane: i corridoi e la stanza dovo sono stata rinchiusa con altre 9 donne erano illuminate solo dalla luce della luna, un odore indescrivibile di marcio e di sporco, quasi soffocante. Sedie e letti incrostati di sporco, di luridume di anni ed anni. Nel terrore. Non penso di aver mai pianto così tanto in vita mia.

Ma nei momenti più bui del mio “soggiorno” a Tel Aviv, io, abituata a cercare di credere sempre nel “Restiamo Umani”, grande insegnamento di Vittorio, sono riuscita ugualmente a trovare cose positive: 3 episodi, piccoli gesti di solidarietà, conforto e sostegno.

Un’agente, che mi suggeriva per il bene della mia salute, di bere dell’acqua poiché mi stavo disidratando a causa del pianto;

una coppia di americani di religione ebraico ortodossa incontrati in una pausa del mio interrogatorio, che raccontandomi lo loro analoga avventura subita in un altro paese, maltrattati ed umiliati come io lo ero stata in quel momento, mi hanno dato forza, ricordandomi di rimanere umana, con la speranza che un giorno la gente la smetta di condannarsi reciprocamente per motivi etnici o religiosi;

e durante il controllo del mio bagaglio, quando un’agente ha visto che l’intera valigia era piena di giocattoli e vestiti per bambini, dopo avermi chiesto perché ed ascoltato la mia risposta “Se il mio percorso in Gerusalemme mi porterà ad incontrare bambini bisognosi o malati, siano arabi od israeliani, musulmani, cattolici od ebrei, ho pensato di portare in dono sorrisi ed un biriciolo di felicità a chi non la riceve quotidianamente”, mi dice che è dispiaciuta di quello che ho subito e che ci vorrebbero più persone come me.

Ma non sono una minaccia, una terrorista?

La mattina successiva, il 27 Agosto alle 05.00 del mattino mi hanno fatta uscire di cella, caricato sull’aereo in partenza per Roma, dove sono stata “accolta” e “scortata” nell’ufficio di polizia aeroportuale di Fiumicino, dove mi è stato riconsegnato il passaporto con un timbro a doppia barra: “Accesso Negato”. Un timbro non meritato, una libertà negata: una condanna a vita per una cittadina onesta, che era giunta in Terra Santa per conoscere le proprie origini, per portare le propria cultura ed arricchirsi della “loro”, un’ambasciatrice di umanità e di solidarietà per i bisognosi, l’insegnamento di Gesù.

Urla, minacce, incomprensioni, pregiudizi sulle mie origini “ARABE”, nella terra di Israele, terra di grandi popoli, storia e grande democrazia

Avrei dovuto rimanere in Israele per 16 giorni. L’incubo è durato 16 ore. Il responso a pagina 16 del mio passaporto.

Alle 08.00 ero nuovamente in Italia, grazie all’encomiabile e rapido aiuto delle Istituzioni Italiane che tanto e bene hanno operato per farmi uscire da questa situazione assurda, surreale, senza che niente di peggio mi potesse accadere.

Questa lettera per capire il motivo di questo “Accesso Negato”, di questo accanimento, di questa umiliazione.

Ancora non so il perché.

Fatima Abbadi

mercoledì 27 luglio 2011

Venice 2011

July: Photos from a sunny shinny trip to Venice. Thank you so much Jamal for the lovely day spent together.

more can be seen at http://www.flickr.com/photos/fatimaabbadi/sets/72157627292221176/with/5980496391/

lunedì 14 marzo 2011

Personal Exhibition 2011

Portraits 2011
Location: Padua (Italy)
Day: 15 March 2011

giovedì 10 marzo 2011

"Ummi " (mia madre) è un mio tributo a Mahmoud Darwish e alle donne

Mentre mi trovavo a parlare con mia madre davanti ad un caffé caldo,durante una una delle tante conversazioni da cui spesso traggo consiglio e conforto, mi è tornata in mente una poesia straordinaria "Ummi" del grande poeta palestinese Mahmoud Darwish.
Spesso questa poesia è stata considerata come una metafora della Palestina, nonostante Mahmoud Darwish abbia sempre affermato di parlare semplicemente di sua madre.Allora ho pensato che mia madre,che tutte le madri fossero la metafora perfetta di questa poesia.
Fossero l'ancora di salvezza di una nazione, forti e coraggiose quanto una nazione che vuole affermare i propri diritti.
Questa poesia rappresenta per me un inno dunque a tutte le madri del mondo per il loro ruolo straordinario e l'impegno nella vita sociale.
Con le mie foto ho sempre cercato di dare un piccolo omaggio alla donna e a questo grande poeta arabo scomparso spero grazie a loro di esserci riuscita.

Per mia Madre
Bramo il pane di mia madre
il caffé di mia madre
il tocco di mia madre
Cresce in me l’infanzia
giorno dopo giorno
ed amo la mia vita… perché
nell'ora della mia morte
mi vergogno delle lacrime di mia madre !

E se tornassi indietro un giorno
prendimi velo per tue ciglia
e copri le mie ossa con erba
benedetta dalla tua caviglia.
E stringi le mie catene
con un ricciolo dei tuoi capelli
con un filo penzolante dall’orlo del tuo vestito.
Forse diverrei un dio
un dio diverrei…
se toccassi le profondità del tuo cuore !

Se tornassi indietro … usami
combustibile nella fornace del tuo fuoco,
corda da panni sul tetto della tua casa,
perché divenni debole per stare in piedi
senza la tua preghiera giornaliera.
Diventai vecchio decrepito.
Restituiscimi le stelle dell’infanzia
così che io,
condivida con i piccoli uccelli
il percorso di ritorno
verso il nido della tua attesa.


Tante poesie di Mahmud Darwish sono state spesso riprese dal famoso cantante libanese Marcel Khalifeh che spesso ha collaborato assieme a lui, questa è "Ummi" suonata e cantata da lui.

martedì 1 marzo 2011

Traduzone interviste

Scritto dalla giornalista Salwa Yasin
2011/10/01 Amman – Giordania

'Può dire di più una donna in un sospiro che un uomo in un sermone' (Arnold Haultain).
Questo sentimento fa certamente eco nella collezione in bianco e nero fotografico di Fatima Abbadi. Le sue opere sono un omaggio al soggetto femminile, accattivante e seducente: trascendono la cultura e la razza per evocare la rara bellezza nei trascendentali momenti della vita delle donne di tutto il mondo. Questa è la prima mostra di Fatima Abbadi in Giordania, ma ha già esposto numerose volte in Italia. L'ispirazione per Fatima Abbadi deriva da fotogiornalisti e fotografi di strada come Henri Cartier-Bresson, Eduard Boubat e Eugene Smith, la cui scelta della fotografia in bianco e nero è un tentativo mirato a enfatizzare le emozioni del soggetto senza la distrazione o articolazione che il colore può produrre. Una convinzione che anche Fatima Abbadi stessa ha fatto sua.
Le opere sono un insieme eclettico di diverse scene di donne nella loro vita quotidiana sia in Europa che in Medio Oriente. In queste foto vengono catturati attimi di giovani e meno giovani donne e, ognuno, racconta distintamente un'unica e personale storia di vita. In una delle fotografie, la visione della schiena di una donna che cammina mentre sta portando il suo bambino in braccio, è tanto semplice quanto profondamente è in grado di raccontare la filosofia fotografica dell'artista. Le donne sono viste tradizionalmente come protettrici nella società e questo è spesso dato per scontato, un punto sapientemente illustrato attraverso la scelta d'angolazione in questa fotografia. Solo il volto del bambino è visibile e raffigura il modo in cui il ruolo fondamentale svolto dalle donne è, spesso, ignorato.
Nonostante le diversità delle foto, all'interno di ogni pezzo si riconosce una universalità che si fonde in ogni fotografia: l'esperienza femminile. Il tema centrale è che, indipendentemente dalla loro ubicazione, le donne 'sono tutti uguali, la base è sempre la stessa '. La collezione è una vera e propria riflessione sulla vita personale dell'artista, appartenente a due culture diverse, giordana e italiana. Fatima Abbadi spiega che il suo miscuglio di nazionalità dà una prospettiva unica sulla cultura, sulla società e specialmente sulla visione delle donne. La sua 'parte' araba le permette di individuare in che modo 'le donne arabe sono speciali'. Un punto che lei si sente in dovere di sottolineare, a causa del pensiero generale sulle donne arabe che comunemente ha sentito durante le sue esposizioni in Europa. Fatima Abbadi vuole rompere le barriere che circondano la percezione della donna araba in Occidente, e la sua collezione è un chiaro sforzo atto a illustrare le somiglianze tra le due donne (araba ed europea) che servirà a sua volta ad aiutare a cancellare le divisioni nella percezione in entrambe le società. Sulla base di questa mostra si può prevedere che questa giovane artista femminista araba avrà molta influenza e successo, sia sul panorama artistico che nell'essere parte di coloro che lottano per abbattere gli stereotipi in Oriente e in Occidente.

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“Women through my lens”
scritto Taufiq Abed – Al Jazzera Net – 11/01/2011

Fatima Abbadi, fotografa Italo-Giordana, ha scelto la macchina fotografica come strumento per concentrarsi sulle donne per spiegare i loro misteri, i loro sentimenti e la loro femminilità. Fatima Abbadi in questa galleria in Amman, espone 62 fotografie in bianco e nero dove ha immortalato momenti di felicità, di tristezza e di malinconia. In questa intervista data per Jazeera Net, l'artista dichiara di voler trasmettere alla società le sue origini e la sua storia mediorientale e vuol far vedere tramite la sua fotografia che la donna araba (forte) riesce a raggiungere i propri obiettivi, non come viene normalmente etichettata (sconfitta – rinchiusa in casa ad accudire figli, cucinare e guardare la TV).
Fatima Abbadi ha realizzato varie mostre in Italia dimostrando che anche il medio oriente possiede una cultura dell'arte, musica, letteratura e dei talenti, e tentando di demolire gli stereotipi sul mondo arabo,facendo notare che per il raggiungimento dei suoi obiettivi, si ispira continuamente a poeti come Ahmad Shawki, Nizar Qabbani, Mahmud Derwish e cantanti come Fairuz e Oum Kalthum. Per Fatima Abbadi la donna è come un cofanetto pieno di sorprese, non sai mai cosa trovi all'interno, e tramite la sua fotografia si possono scoprire queste sensazioni nascoste; il segreto della bellezza di una donna sta nella sua sensibilità e nel modo in cui è in grado di esprimerla.
Bianco e Nero
Fatima Abbadi sostiene che è difficile scoprire la femminilità, ma tramite la fotografia si possono esternare i sentimenti, la maternità, l'attrazione, la tristezza e la felicità, ed aggiunge che non c'è differenza tra una donna araba ed una europea, perché i sentimenti sono unici e comuni: si potrebbe dire che la diversità sta solo nel modo in cui essi vengano esternati in base alla cultura di appartenenza.
Fatima Abbadi ha scelto il bianco e nero come mezzo di comunicazione per descrivere i sentimenti della persona fotografata perché le sfumature del grigio, secondo lei, enfatizzano ed allo stesso tempo danno un tocco classico e misterioso ai soggetti ritratti.
Il momento fotografico nasce quando lei entra in contatto con gli occhi della donna che intende fotogragare:
con uno sguardo riesce a capire se se sia o meno il caso di scattare. Questo grazie al fatto che essendo una fotografa donna, trova più facile entrare in comunicazione con il soggetto femminili e quindi riesce comprendere e catturare i suoi sentimenti.

L'appartenenza alla cultura araba, l'amore per l'arte, le usanze e la religione sono date dal padre giordano; dalla madre italiana derivano una visione delle cose da molteplici punti di vista e la mentalità aperta. Dall'Italia, paese d'arte, ha appreso l'amore per le cose, la conservazione ed il restauro.
Dicono di lei
Dal punto di vista del responsabile del Centro Fotografico Giordano, Hassan Al-Damuni, le foto di Fatima Abbadi sono belle e specialmente perchè sono state scattate in bianco e nero, focalizzandosi sull'unione tra la donne occidentale e mediorientale (essendo lei di origine araba e vive in occidente), e che ancora non ha raggiunto a pieno il suo obiettivo di portare completamente entrambe le culture.

L'artista Abd Al-Majeed Halawa descrive al Jazera Net Fatima Abbadi come artista e critica, perché è riuscita a far vedere tramite la fotocamera vari aspetti ed esperienze che ha avuto delle due culture; è stata coraggiosa nel farci vedere questo suo punto di vista appartenente alle due culture araba e occidentale e con un occhio accurato ha selezionato i suoi scatti.

La responsabile della Galleria, Majdoline AL-Gazzawi Al-ghoul: “questa nuova esperienza ci ha portato qualcosa di nuovo e contiene un messaggio che ci focalizza sui sentimenti delle donne e mette in evidenza la femminilità mondiale, che in questa era annebbiata sta venendo meno; ogni fotogramma infatti racconta una situazione femminile particolare. L'utilizzo del bianco e nero è uno strumento sincero per mostrare le intimità di donne che vengono riprese senza accorgersene.”

martedì 1 febbraio 2011

Italian Press talking about "Women throught my lens"

What a wonderful surprise i had today. Unexpectedly I found today that in two of the most top photo magazine they published my gallery event in Amman. :-D

Magazine: Fotografia REFLEX
February 2011


Magazine: FotoCult
February 2011







giovedì 20 gennaio 2011

Dar AlAnda ‘Women through my lens’: By Fatima Abbadi

‘A woman can say more in a sigh than a man can say in a sermon’ (Arnold Haultain). This sentiment is certainly echoed in the black and white photographic collection by Fatima Abbadi. Her works are a homage to the feminine subject, captivating and alluring, they transcend culture and race to evoke the rare beauty in transcendental moments in the livesof women throughout the world. This is Abbadi’s first exhibit in Jordan but one of many in Italy. Inspiration for Abbadi is derived from such photojournalists and street photographers such as Henri Cartier-Bresson, Eduard Boubat and Eugene Smith whose choice of black and white photography is a deliberate attempt to emphasise raw emotion in the subject without the distraction or articulation that colour produces. A belief that Abbadi herself has ascribed to.

The works are an eclectic array of different scenes of women in their daily lives both in Europe and the Middle East. Moments in the lives of young and old are captured, each telling a distinctly unique and personal life story. In one of the photographs the back of a woman walking whilst carrying her child is deceptively simple yet profoundly telling of Abbadi’s personal photographic philosophy. Women are traditionally appointed as the care givers in society and this is often taken for granted, a point cleverly illustrated through Abbadi’s choice of angle in this photograph. Only the face of the child is seen depicting the way in which the vital role played by women is so often disregarded.

Despite such individuality within each piece there is a universality that coalesce each photograph uniting the female experience. The central theme throughout is that woman, irrespective of location, ‘are all the same, the basis is always the same’. The collection is very much a reflection of the artists own personal life of belonging to two different cultures, Jordanian and Italian. Abbadi explains that her mixture of nationalities gives her a unique perspective on culture, society and women especially. She goes on to explain that being part Arab has allowed her to see the ways in which ‘Arab women are special’. A point that she feels compelled to stress due to the general misconceptions about Arab women that she has heard whilst exhibiting her collections in Europe. Abbadi wants to break the barriers surrounding the perception of Arab women in the West and feels that her collection is a concerted effort to illustrate the similarities of both Arab and European women which in turn will serve to help erase the divisions in perception in both societies. Based on this exhibition it can be predicted that this young Arab Feminist artist will have much influence and success on both the artistic landscape and in being a part of those fighting the battle to break down stereotypes in East and West.

written by: Salwa Yasin
10/01/2011 Amman - Jordan

martedì 18 gennaio 2011

"Women Through My LEns"

Finally the day has come, after a year and a half of preparation my exhibition is ready. January 10th, 2011, 62 photographs had been exposed at Dar Al Anda in Amman (Jordan) and thanks to Majdoline Ghzawi (responsible of the gallery) accurate organization and team work, the result from my point of view was really a satisfation.

Here are some shots: